SOCIETÀ INTESTATE A SÉ STESSO E RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE
Data
18.08.2025
Matteo Rinaldi
HOLDING DI FATTO: RISCHI, FALLIMENTO ED ESTENSIONE AI BENI PERSONALI
Gestire più società come fossero reparti della stessa impresa è l’errore nascosto che espone migliaia di imprenditori al rischio più grave: essere considerati dal tribunale un’unica impresa, non un gruppo. Finché tutto funziona, la gestione accentrata appare efficiente. Basta però un contenzioso, un insoluto, un accertamento fiscale o una crisi improvvisa in una sola SRL per far crollare la separazione formale. In quell’istante la linea tra “società autonome” e “impresa unica” si spezza.
La giurisprudenza è chiarissima. Uso promiscuo dei conti correnti, pagamenti incrociati, personale condiviso senza contratti, decisioni prese sempre dalla stessa persona e assenza di governance formale sono indizi più che sufficienti per far scattare l’estensione della liquidazione giudiziale. La sostanza prevale sempre sulla forma. Quando la gestione è unitaria, il tribunale non vede più un gruppo: vede un’unica impresa fallibile. Una crisi locale si trasforma in un fallimento di gruppo. Il curatore non osserva le singole società. Ricostruisce la realtà sostanziale e, se individua una regia unica, travolge tutto.
È un passaggio silenzioso, rapido, invisibile. Le società che credevi autonome vengono trattate come “vasi comunicanti” e ricondotte a un’unica Supersocietà di fatto. La crisi di una SRL diventa la crisi di tutte. E il patrimonio personale – spesso anche quello del coniuge – entra nel perimetro.
Questo articolo non parla di teoria. Parla del momento in cui l’imprenditore scopre che la sua struttura non è una protezione, ma un castello di carte. E che quando il tribunale arriva, non perde una SRL: perde tutto il suo sistema.
COS’È UNA HOLDING DI FATTO
Una Holding di fatto non nasce da una scelta consapevole ma dal modo in cui l’imprenditore gestisce le proprie società. È una qualificazione giudiziaria che prescinde dagli statuti, dalle partite IVA e dai ruoli formali: conta solo come le società funzionano nella realtà. Quando più SRL vengono guidate dalla stessa persona, utilizzano risorse senza distinzione e operano come reparti di un’unica impresa, il tribunale smette di considerarle autonome e le ricompone in un solo soggetto economico. È un ribaltamento completo: il gruppo non è più un gruppo, ma una sola impresa ai fini della responsabilità.
Il punto critico è che questa configurazione nasce da abitudini che l’imprenditore percepisce come normali: dare indicazioni indistintamente a tutte le società, intervenire su pagamenti e priorità operative senza distinguere chi debba sostenerli, utilizzare personale, mezzi e immobili passando da una società all’altra “per praticità”, lasciare i rapporti infragruppo alla consuetudine anziché ai contratti. Nulla di tutto questo appare rischioso mentre l’attività procede, ma nelle verifiche concorsuali diventa la prova concreta che le società non hanno mai goduto di una reale autonomia.
La direzione effettiva unica è il primo segnale che i curatori rilevano. Quando le decisioni operative, finanziarie e strategiche dipendono sempre dalla stessa persona, la presenza di amministratori formalmente distinti perde ogni valore. La struttura appare plurale solo sulla carta: nella realtà esiste un unico centro di comando.
A questo si aggiunge l’assenza di una tesoreria separata. Anticipazioni ripetute, coperture reciproche e movimenti incrociati mostrano che il denaro circola come se appartenesse a un’unica impresa. I flussi non mentono. L’uso promiscuo di beni, mezzi, immobili e personale rafforza il quadro: se le risorse passano da una società all’altra senza contratti, canoni o delibere, la separazione non è mai esistita.
Quando questi elementi emergono insieme, la qualificazione diventa inevitabile. L’imprenditore che credeva di avere costruito un sistema articolato scopre che, agli occhi del tribunale, esiste un solo organismo economico. E se l’organismo è uno, il rischio è unico. La crisi di una SRL trascina con sé tutto il gruppo e può estendersi fino al patrimonio personale. La Holding formale nasce da una struttura. La Holding di fatto nasce dall’assenza di struttura — e viene sempre alla luce quando è troppo tardi.
SUPERSOCIETÀ DI FATTO: COME I GIUDICI RICOSTRUISCONO UN’UNICA IMPRESA FALLIBILE
La Supersocietà di fatto emerge quando la gestione reale smentisce la forma. Nelle procedure concorsuali i giudici non guardano gli statuti, ma il funzionamento concreto: se decisioni, funzioni e risorse scorrono senza confini, l’intero sistema viene ricondotto a un’unica impresa economica, anche senza una holding formale o un contratto di gruppo.
Questo è l’approccio confermato dalla Corte d’Appello di Venezia (26 marzo 2021), che ha riconosciuto la supersocietà pur in assenza di patti sociali, basandosi esclusivamente sull’integrazione operativa e sulla regia unica.
Primo segnale: finalità economica unitaria.
Le società partecipano allo stesso ciclo operativo: una fattura, un’altra assorbe costi, una terza sostiene l’infrastruttura. Non è coordinamento fisiologico ma interdipendenza. La Cassazione (4 gennaio 2024) ha ribadito che questa connessione sostanziale è sufficiente per trattare il gruppo come un’unica impresa ai fini dell’art. 256 CCII.
Secondo indice: integrazione strutturale.
Logistica, commerciale, amministrazione e immobiliare operano come reparti dello stesso organismo. Ogni società vive perché sorretta dalle altre. Per i giudici non è efficienza, ma un’unica organizzazione economica suddivisa artificialmente in più contenitori.
Terzo livello: comunione patrimoniale.
Risorse, mezzi, software, uffici e personale circolano senza contratti, canoni o delibere. La quotidianità mostra conti comunicanti e beni utilizzati da tutte le SRL. Ciò che l’imprenditore considera “normale operatività” diventa prova di confusione patrimoniale. Quando un asset serve indistintamente l’intero gruppo, la barriera giuridica è già compromessa: esiste un unico patrimonio economico e un unico rischio.
Quando questi elementi convergono, la separazione formale cede. La crisi non resta circoscritta: trascina l’intero sistema e può estendersi fino ai beni personali — talvolta anche a quelli del coniuge — se collegati alla gestione comune. La Supersocietà di fatto non nasce negli atti, ma nelle abitudini. E quando viene ricostruita dal tribunale, ciò che l’imprenditore chiamava “gruppo” risulta, da tempo, un’unica impresa distribuita in più SRL.
COME I TRIBUNALI ACCERTANO LA GESTIONE UNITARIA: IL METODO FORENSE
Quando una società entra in crisi, il tribunale non si limita a verificare i numeri: vuole capire chi ha esercitato il potere reale, come sono stati utilizzati i patrimoni e se le società hanno agito come soggetti autonomi o come parti di un’unica impresa.
Con il passaggio dall’art. 147 L.F. all’art. 256 CCII non è cambiata la logica: non si punisce la complessità del gruppo, ma l’opacità della gestione unitaria. La norma non colpisce chi possiede più società, ma chi le governa come un’unica impresa senza aver costruito confini opponibili.
L’indagine non è contabile, ma forense: ricostruisce la dinamica quotidiana del gruppo attraverso tracce digitali, sequenze operative e flussi economici. È questo accertamento — non il dissesto in sé — che stabilisce se la crisi resta circoscritta o diventa sistemica.
I giudici seguono un protocollo preciso, ormai standardizzato nelle liquidazioni giudiziali.
1. Tracciamento dei flussi finanziari
I curatori ricostruiscono la cronologia completa dei movimenti: anticipazioni ripetute, coperture di tesoreria, spostamenti di liquidità, priorità di pagamento e costi sostenuti da una società per un’altra. Non conta l’importo, conta la ricorrenza. Flussi coordinati = regia unica.
2. Analisi digitale degli strumenti di comando
E-mail, WhatsApp, gestionali, file condivisi, log di accesso, cloud e autorizzazioni interne vengono acquisiti per individuare la “mano che decide”. Anche poche sequenze coerenti di ordini approvati dallo stesso soggetto bastano a ricostruire la direzione effettiva.
3. Incrocio operativo–contabile
Ordini, fatture, consegne, flussi logistici, tempistiche, rapporti con fornitori e banche mostrano se le società operano con logiche autonome o se funzionano come reparti integrati. Quando i processi sono sincronizzati, la distinzione societaria diventa solo formale.
4. Riscontri testimonali diretti
Dichiarazioni di dipendenti, consulenti e fornitori confermano chi decide davvero. Le convergenze individuano immediatamente l’amministratore di fatto, anche se non risulta formalmente.
Quando questi quattro livelli si allineano, la gestione unitaria diventa un fatto giuridico opponibile.. Ed è proprio questo accertamento — non la crisi — che consente al tribunale di applicare l’art. 256 CCII, estendere la procedura a tutte le società collegate e includere, quando necessario, il patrimonio personale dell’imprenditore.
COME NASCE UNA HOLDING DI FATTO: GLI ERRORI CHE COSTRUISCONO UN’UNICA IMPRESA SENZA CHE NESSUNO SE NE ACCORGA
Le Holding di fatto non nascono da una scelta, nascono da una deriva: anni di gestioni sovrapposte, decisioni prese sempre dalla stessa persona, conti che si incrociano “per comodità”, personale che passa da una società all’altra senza contratti, rapporti infragruppo lasciati al commercialista “perché tanto siamo noi”. È un modello che funziona finché l’operatività regge; ma è proprio questa apparente efficienza che, nelle verifiche concorsuali, diventa la prova che le società non hanno mai avuto un’esistenza autonoma. La struttura non crolla nella crisi: crolla quando la crisi la illumina.
Il punto di rottura è sempre lo stesso: la distanza tra come l’imprenditore crede di gestire il gruppo e come il tribunale lo ricostruisce. Per l’imprenditore ogni SRL ha un ruolo; per i giudici, se quei ruoli non poggiano su statuti distinti, deleghe coerenti, processi deliberativi separati e documenti a data certa, non esistono. Statuti copiati, governance identica, poteri non delimitati e amministratori che non amministrano sono la prima conferma della regia unica. Gli atti non raccontano una struttura: raccontano un solo centro decisionale.
La contabilità amplifica il quadro. Bilanci disallineati, partite infragruppo senza titolo, rimborsi “a memoria”, costi sostenuti da una società per l’altra, rimanenze allocate senza criterio, tempistiche incongruenti: ogni incoerenza diventa un indizio. Il commercialista le considera imprecisioni fisiologiche; il giudice le legge come la prova che nessuno ha mai trattato le società come entità autonome. Ogni volta che la contabilità non distingue, il tribunale unisce.
Il vero detonatore è la tesoreria. Se i conti si sostengono a vicenda, se le anticipazioni non sono deliberate, se i trasferimenti non hanno un titolo, se le compensazioni nascono spontaneamente, la cassa diventa unica. E quando la cassa è unica, per il tribunale l’impresa è una sola. La tesoreria condivisa non è un dettaglio tecnico: è il cuore della riqualificazione. È qui che nasce, senza che l’imprenditore se ne accorga, l’impresa unitaria che farà scattare l’art. 256 CCII.
Sul piano operativo il quadro si completa: personale che risponde sempre allo stesso soggetto, mezzi e immobili che circolano senza contratti, decisioni prese via WhatsApp, priorità definite fuori da ogni organo deliberativo, attività integrate come reparti della stessa azienda. In questo ambiente la forma societaria diventa un involucro. È la quotidianità — non gli atti — a raccontare al tribunale che il gruppo è un organismo con un solo cervello.
La verità è scomoda ma semplice: la Holding di fatto non nasce in tribunale, nasce nella normalità. E quando la normalità è costruita senza confini, il giorno in cui arriva un accertamento, un insoluto o una tensione di cassa, la struttura non viene valutata: viene smontata.
Tutto ciò che l’imprenditore considerava “efficienza” diventa la prova della confusione. E quando la prova è chiara, la Holding di fatto non è un rischio: è già una fotografia. Da quel momento in poi, la crisi di una SRL non è la crisi di una società — è la crisi di tutto il sistema.
FALLIMENTO IN ESTENSIONE (ART. 256 CCII): LE CONSEGUENZE REALI SU SOCI, SRL SANE E PATRIMONIO
L’art. 256 CCII è il dispositivo che trasforma la crisi di una singola società in una procedura che travolge l’intero gruppo. Non si attiva per il debito, ma per la sostanza della gestione: se più società operano come un’unica impresa — direzione unitaria, confusione patrimoniale, interdipendenza funzionale — la liquidazione giudiziale non resta circoscritta. Il tribunale la estende automaticamente a tutte le società riconducibili alla stessa regia, anche se in bonis, patrimonializzate o prive di insoluti.
Gli effetti sono immediati e irreversibili:
1. Blocco della tesoreria e dell’operatività.
Conti correnti congelati, affidamenti sospesi, factoring revocati, fornitori che interrompono consegne, clienti che sospendono gli ordini. L’intero sistema si ferma nell’arco di poche ore.
2. Attrazione del patrimonio personale.
Quando beni, immobili o risorse dell’imprenditore — o del coniuge — risultano utilizzati per sostenere il gruppo, entrano nel perimetro concorsuale. È uno degli effetti più invasivi e sottovalutati.
3. Inclusione delle SRL sane nella procedura.
Le società senza debiti, con bilanci solidi e piena operatività, vengono coinvolte perché considerate parte della stessa impresa economica. I loro asset diventano massa attiva.
4. Responsabilità personali ex art. 2476 c.c.
La gestione unitaria può generare responsabilità dirette dell’amministratore, con rischio di aggressione al patrimonio personale anche al di fuori della procedura concorsuale.
5. Revocatorie estese.
Il curatore analizza pagamenti, trasferimenti, compensazioni, donazioni, atti immobiliari e movimentazioni verso familiari o veicoli societari. Tutto ciò che appare incoerente viene potenzialmente annullato.
Il fallimento in estensione non nasce dalla crisi, ma dalla mancanza di barriere. Quando il tribunale accerta che il gruppo opera come un unico organismo, la moltiplicazione delle SRL non rappresenta diversificazione: diventa amplificazione del rischio.
COME SI EVITA TECNICAMENTE UNA HOLDING DI FATTO (PRIMA CHE IL TRIBUNALE LA RICOSTRUISCA)
L’unico modo per impedire la Holding di fatto è costruire confini opponibili. Non concettuali o amministrativi, ma giuridici, documentali e gestionali. Il tribunale non guarda agli statuti, ma ai comportamenti: per questo la separazione deve essere reale, visibile e verificabile.
Prima barriera: la governance. Ogni società deve avere un proprio centro decisionale formalizzato, con deleghe, deliberazioni e protocolli che mostrino una direzione indipendente. Ciò che non è scritto non esiste. Ogni decisione intersocietaria deve emergere da atti con data certa, mai da consuetudini prive di tracciabilità.
Seconda barriera: la finanza. Nessuna società deve sostenere costi, pagare fornitori o anticipare liquidità per un’altra senza un contratto infragruppo valido, proporzionato e contabilmente coerente. L’esistenza di una tesoreria separata non va presunta: va dimostrata. Ogni trasferimento di fondi deve avere un titolo, un tasso, una delibera e una contabilizzazione speculare. In assenza di questa simmetria, ogni flusso diventa prova di confusione.
Terza barriera: l’operatività quotidiana. Beni, personale, immobili, software e infrastrutture non possono circolare liberamente. Ogni utilizzo deve poggiare su contratti di messa a disposizione, service agreement, canoni determinati e regolamenti interni che traccino l’uso concreto delle risorse. Il tribunale non ammette la “comodità gestionale”: interpreta ogni uso promiscuo come integrazione funzionale.
Quarta barriera: la progettazione preventiva. L’architettura del gruppo deve reggere anche quando l’imprenditore non è presente. Le società devono funzionare senza una regia unica costante. La documentazione deve parlare da sola. La separazione non si dichiara: si costruisce. Solo una struttura opponibile impedisce al tribunale di ricomporre ciò che l’imprenditore credeva di avere distinto.
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CONCLUSIONE: COSA RESTA QUANDO LA STRUTTURA VIENE MESSA ALLA PROVA
Una Holding di fatto non nasce nel momento della crisi: prende forma negli anni, mentre le società operano come un organismo unico e l’imprenditore è convinto di guidare un gruppo. Quando il tribunale interviene, non valuta intenzioni o storia familiare: ricostruisce i fatti. E se nei fatti la separazione non esiste, la forma giuridica smette di valere.
La protezione non dipende dal numero delle SRL né dalla loro intestazione. Conta solo la capacità di dimostrare che ogni società ha una vita autonoma: decisioni distinte, flussi segregati, responsabilità definite, contratti congrui, bilanci coerenti con i comportamenti reali. Senza questa coerenza, la struttura si sgretola alla prima verifica e rivela ciò che è sempre stata: un’unica impresa suddivisa in più contenitori formali.
La verità è lineare: tutela, autonomia e separazione esistono solo quando sono sostenute da architettura, documenti e disciplina gestionale. Le strutture che resistono non sono quelle corrette in emergenza, ma quelle progettate quando tutto funziona.
Chi costruisce oggi una separazione opponibile definisce il proprio futuro. Chi attende la crisi affida ai giudici la ricostruzione della propria impresa. In quel momento non esiste più un gruppo: esiste ciò che il tribunale riesce a ricomporre. E quasi mai coincide con ciò che l’imprenditore credeva di avere costruito.
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